Nel diabete di tipo 1 le cellule beta del pancreas vengono distrutte, rendendo necessaria l’insulina esterna per tutta la vita. Tuttavia, anche chi segue una terapia insulinica regolare può sviluppare complicanze cardiovascolari. La resistenza all’insulina, ovvero la difficoltà dei tessuti a rispondere all’ormone, rappresenta un fattore chiave ma spesso invisibile. Comprendere in quali tessuti sia più rilevante – fegato, muscoli o tessuto adiposo – è fondamentale per trovare strategie di prevenzione efficaci. Mira in questa direzione, una recente analisi pubblicata su Nature Communication. Lo studio ha incluso 40 adulti con diabete tipo 1 (età media 37 anni, durata del diabete ~23 anni) e 20 adulti senza diabete per un confronto iniziale. T

COME È STATO CONDOTTO LO STUDIO

Lo studio INTIMET, oltre ai 40 adulti con diabete di tipo 1, ne ha coinvolti altri 20 senza diabete come gruppo di confronto. Tutti i partecipanti sono stati valutati con la hyperinsulinemic-euglycemic clamp, la tecnica più precisa per misurare la resistenza all’insulina nei diversi tessuti. Dopo questa valutazione iniziale, i 40 pazienti con diabete di tipo 1 sono stati divisi in due gruppi: uno ha ricevuto metformina 1500 mg al giorno, l’altro un placebo, per 26 settimane, continuando la loro normale terapia insulinica. Lo studio era in doppio cieco, quindi né i partecipanti né i ricercatori sapevano chi assumeva metformina o placebo.

EFFETTI DELLA RESISTENZA SUI TESSUTI

I risultati hanno confermato che la resistenza insulinica nei pazienti con diabete di tipo 1 coinvolge più tessuti contemporaneamente. Nel fegato, la produzione di glucosio endogeno era più alta del 64% rispetto ai controlli sani, a indicare che l’insulina non riusciva a sopprimere efficacemente la glicogenolisi e la gluconeogenesi. Nei muscoli, il fabbisogno di glucosio durante il clamp (un test usato per misurare l’insulino resistenza) era inferiore del 29%, segno di un ridotto assorbimento di glucosio. Anche nel tessuto adiposo si osservavano livelli elevati di acidi grassi non esterificati (NEFA), indicativi di una risposta insulinica compromessa. Dopo 26 settimane, non sono state registrate differenze significative tra i pazienti trattati con metformina e quelli con placebo riguardo la resistenza insulinica in fegato, muscoli o tessuto adiposo. Non sono stati inoltre osservati episodi di ipoglicemia o chetoacidosi. In altre parole, la metformina non riduce la resistenza all’insulina nei pazienti con diabete di tipo 1.

UN EFFETTO POSITIVO: RIDUZIONE DEL FABBISOGNO INSULINICO

Nonostante l’assenza di effetti sulla resistenza insulinica, la metformina ha mostrato un beneficio importante: ha permesso di ridurre il fabbisogno insulinico di circa 0,1 unità/kg al giorno, corrispondente a circa il 12% in meno rispetto al placebo. Ciò significa che, pur senza agire direttamente sulla resistenza, il farmaco può aiutare a “risparmiare” insulina, probabilmente tramite meccanismi intestinali e ormonali. “Ridurre la quantità di insulina necessaria è un obiettivo importante per molte persone con diabete di tipo 1. La metformina dimostra di poter contribuire a questo, anche se non migliora la resistenza all’insulina”, sottolinea Jennifer Snaith, prima firmataria dello studio.

IL RUOLO DEL MICROBIOTA

I ricercatori stanno ora cercando di comprendere i meccanismi alla base di questo effetto. In particolare, l’attenzione è rivolta al microbiota intestinale: crescono le prove che la metformina possa modulare la flora intestinale, influenzando il metabolismo e la gestione del glucosio. Approfondire questa strada potrebbe aprire nuove prospettive nella gestione del diabete di tipo 1. In conclusione, la resistenza all’insulina nei pazienti con diabete di tipo 1 riguarda fegato, muscoli e tessuto adiposo, ed è indipendente da peso o massa grassa. La metformina non corregge questa resistenza, ma può ridurre leggermente il fabbisogno di insulina, con possibili benefici cardiovascolari ancora da confermare. Rimane aperta la sfida di capire come intervenire efficacemente sulla resistenza insulinica in questa popolazione, e ulteriori ricerche sul ruolo dell’intestino e dei meccanismi ormonali potrebbero offrire nuove soluzioni.

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