Il rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 1 è una delle più insidiose minacce per la salute della persona e per la sua aspettativa di vita. Uno studio condotto da giovani ricercatori della Società italiana di diabetologia (e presentato all’ultimo congresso Easd di Monaco di Baviera, Germania) ha permesso di elaborare un modello in grado di misurare il rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 1 in modo da calibrare il meglio possibile sia la terapia sia la prescrizione della pratica di corretti stili di vita.
Analizzando alcuni parametri chiave come età, emoglobina glicata, albuminuria, livelli di colesterolo e circonferenza alla vita, il diabetologo può definire il grado di rischio di complicanze vascolari del paziente con diabete di tipo 1.
Il modello di predizione del rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 1 si basa su parametri fondamentali e di agevole valutazione come età, emoglobina glicata, albuminuria, livelli di colesterolo e circonferenza alla vita. Analizzando questi elementi il diabetologo e il team diabetologico possono definire per ciascuna persona con diabete di tipo 1 il livello di rischio di sviluppare complicanze cardiovascolari: basso, intermedio o elevato.
Secondo la Sid, “questo modello, facilmente applicabile nel singolo paziente con diabete tipo 1, potrebbe essere utilizzato nella pratica clinica per valutare il rischio individuale di complicanze micro- e macrovascolari, per modulare in questo modo l’intensità degli interventi correttivi sui fattori di rischio e delle strategie di cura, informarne i pazienti e personalizzare gli interventi terapeutici. Tutto questo potrebbe migliorare la prognosi globale e la qualità di vita delle persone con diabete di tipo 1”.
Il modello è stato ricavato dai dati raccolti da una vasta indagine epidemiologica, lo studio Eurodiab, condotta su pazienti con diabete di tipo 1 di diversi Paesi d’ Europa.
Illustra così il significato della ricerca la diabetologa Monia Garofolo (dell’Unità operativa di Malattie metaboliche e Diabetologia, Centro Regionale di Riferimento del Diabete mellito in età adulta, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa): “Questo modello è stato verificato in 774 pazienti con diabete tipo 1 relativamente giovani, con lunga durata di malattia e discreto controllo glicemico. È risultato che 6 individui su 10 avevano un basso rischio cardiovascolare, 3 su 10 un rischio intermedio e almeno 1 su 10 un rischio elevato. La probabilità che si manifesti un evento cardiovascolare nel corso di 10 anni, è risultata diversa nelle varie categorie di rischio, passando dal 5% nei soggetti a basso rischio a oltre il 30% in quelli ad alto rischio. I soggetti con rischio intermedio o alto non solo avevano livelli più elevati di pressione arteriosa, colesterolo e trigliceridi, ma anche una maggior frequenza di complicanze retiniche e renali. I soggetti appartenenti alle categorie di rischio più elevate infine presentavano anche un aumento della mortalità per tutte le cause a 10 anni”.
Commenta il presidente della Sid Giorgio Sesti: “Questi studi aprono nuove prospettive sulla possibilità di predire lo sviluppo del diabete tipo 1 utilizzando parametri clinici comuni e di identificare soggetti con diabete tipo 1 a rischio di complicanze microvascolari e cardiovascolari”.
L’individuazione precoce del grado di rischio cardiovascolare nelle persone con diabete di tipo 1 permetterebbe di ottenere risultati positivi in termini di salute generale e di aumento dell’aspettativa di vita dei pazienti con diabete, che resta tuttora inferiore a quella dei non diabetici.
L’aspettativa di vita dei pazienti con diabete di tipo 1 è ancora oggi, nonostante tutti i grandi miglioramenti nella terapia e nel controllo glicemico, inferiore a quella della popolazione generale. Di qui l’importanza di un intervento terapeutico sempre più tempestivo, accurato e personalizzato.
La Sid richiama due recenti studi pubblicati sulla rivista ufficiale della Easd (European association for the study of diabetes), Diabetologia, secondo i quali “l’aspettativa di vita dei pazienti con diabete mellito tipo 1 risulta ancora oggi inferiore di 10-12 anni rispetto a quella della popolazione generale, nonostante i progressi della terapia insulinica e dei sistemi di controllo della glicemia”.
Nel tempo i miglioramenti in materia di sopravvivenza, prima, e di allungamento dell’attesa di vita, poi, per i diabetici di tipo 1 sono stati di grande rilievo. Se ne parla anche nel saggio “La mortalità totale e cardiovascolare nel diabete” di Isabella Pichiri, Giovanni Targher, Giacomo Zoppini, contenuto nel volume della Sid “Il diabete in Italia”, curato da Giorgio Sesti ed Enzo Bonora (Bononia University Press, Bologna 2016). Scrivono gli autori: “La sopravvivenza dei diabetici di tipo 1 prima della scoperta dell’insulina nel 1922 era estremamente breve: il 50% dei pazienti moriva entro i primi 20 mesi dalla diagnosi e meno del 10% sopravviveva a 5 anni. L’introduzione della terapia insulinica ha rappresentato una pietra miliare nella cura del diabete tipo 1, rivoluzionando l’aspettativa di vita di tali pazienti. Oggi, a distanza di circa mezzo secolo, la terapia insulinica intensiva è diventata l’approccio standard di cura del diabete tipo 1, accompagnandosi a continui miglioramenti in termini di dispositivi iniettivi, sistemi di monitoraggio glicemico e tipologie di insulina”.
Resta però, come di diceva sopra, la differenza tra persone con diabete di tipo 1 e non diabetici per quanto riguarda la mortalità. Gli autori richiamano in proposito uno studio scozzese basato sui dati dei Registri nazionali scozzesi di adulti di almeno 20 anni di età con e senza diabete. I risultati riportano “che, all’età di 20 anni, le donne e gli uomini con diabete tipo 1 possono aspettarsi di vivere, rispettivamente, 12,9 anni e 11,1 anni in meno rispetto ad adulti di età corrispondente ma senza diabete tipo 1. Complessivamente, il 41% di queste morti premature sono state causate da malattie cardiocircolatorie, il 16% da cancro, e il 9% da complicanze acute e da altre cause legate al diabete. La percentuale dei pazienti che è arrivata all’età di 70 anni passa dal 76% degli uomini e 83% delle donne non diabetici al 47% e 55% rispettivamente tra i diabetici tipo 1”.
Tutti questi dati confermano l’importanza di studi come quello dei ricercatori della Sid, che vanno nella direzione di agevolare un intervento terapeutico il più possibile precoce e mirato sulle caratteristiche del paziente di tipo 1 e quindi più efficace.