È ormai frequente sentir definire il diabete “patologia sociale”. Sia per la sua diffusione ed estensione, che coinvolgono l’intera società, in termini di milioni di persone. Sia per il fatto che la sua insorgenza o la sua prevenzione (nel caso del diabete di tipo 2) e la sua gestione e cura (per entrambe le forme, 1 e 2) sono legate anche a fattori sociali quali comportamenti, stili di vita, condizioni economiche e livelli di istruzione. In proposito, diverse analisi ci mostrano che il diabete, così come quella condizione tanto spesso associata al tipo 2 che è l’obesità, finiscono per colpire di più chi ha di meno: meno risorse economiche, meno istruzione, meno informazione.
Diabete: patologia sociale che, tra pazienti diagnosticati, diabetici che ignorano di esserlo, persone con prediabete, già oggi tocca quasi dieci milioni di italiani. E a questi vanno aggiunti i loro familiari, anch’essi coinvolti.
Per quanto riguarda le dimensioni del “diabete patologia sociale”, una prima efficace sintesi è ben compendiata dal diabetologo Domenico Cucinotta (coordinatore dell’Italian Barometer Diabetes Report e direttore del Dipartimento di medicina clinica e sperimentale dell’Università di Messina) così: “Nel nostro Paese, considerando i più di 3,5 milioni di persone con diabete noto, i circa 1,5 milioni che non sanno di averlo e i 4,5 milioni con prediabete, ne risulta che quasi 10 milioni di italiani devono fare i conti o sono comunque destinati a fare i conti con questa patologia e a questi vanno aggiunti i loro familiari. Tra 10 anni, in ogni famiglia italiana vi sarà una persona con diabete o un soggetto prediabetico”.
Avere un basso livello di istruzione e titolo di studio aumenta di tre volte il rischio di diabete e di due volte quello di obesità rispetto a chi ha una laurea.
Proprio il recente decimo rapporto dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer Report, “Facts and figures about type 2 diabetes and obesity in Italy”, realizzato da Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo) Foundation, in collaborazione con Istat, ha approfondito il tema dell’impatto delle condizioni sociali sulla diffusione del diabete. Si è così verificato, dati alla mano, che il rischio di diabete per le persone che hanno soltanto la licenza elementare è tre volte più alto rispetto a chi ha una laurea; quello di trovarsi in condizioni di obesità-sovrappeso (frequentemente legate al diabete di tipo 2) è due volte maggiore.
Nelle classi più svantaggiate per istruzione e reddito sono tendenzialmente più frequenti quei comportamenti a rischio che possono favorire patologie come il diabete di tipo 2: obesità, sedentarietà, cattiva alimentazione, scarsa attenzione al controllo dello stato di salute.
Come si legge infatti nel saggio “Una pandemia che avanza” (di Roberta Crialesi – Istat, Francesco Dotta e Simona Frontoni – Ibdo Foundation, Antonio Nicolucci – Coresearch), “il diabete rientra tra quelle patologie croniche che continuano a colpire le classi più svantaggiate, dove più frequentemente si osservano comportamenti che ne possono favorire l’insorgenza (obesità, sedentarietà, cattiva alimentazione, scarsa attenzione ai controlli dello stato di salute) o aggravarne le complicanze”.
La prevalenza (che misura la percentuale di diffusione della patologia in una popolazione) di diabete “supera il 10% in entrambi i sessi fra le persone con licenza elementare, ed è circa 3 volte maggiore per gli uomini con bassa scolarità, rispetto a quelli laureati, e 6,5 volte superiore per le donne con bassa scolarità rispetto a quelle laureate”.
I dati Istat 2015 su cui si articola il Barometer Report ci dicono in particolare anche che “tra i 45 e i 64 anni la prevalenza del diabete è del 2,9% tra i laureati, del 4% tra i diplomati, mentre raggiunge il 9,8% tra coloro che hanno al massimo conseguito la licenza elementare”. Dalle rilevazioni Istat emerge dunque come la disuguaglianza sociale sia particolarmente accentuata a partire dai 45 anni: una soglia importante, perché sopra i 45 anni il rischio di insorgenza di diabete (di tipo 2) aumenta con l’età. Barometer Report ricorda poi che, rispetto alla classe 45-54 anni, il rischio diventa 8 volte più alto sopra i 75 anni, 6 volte più elevato fra i 65 e i 74 anni e 3 volte maggiore fra i 55 e i 64 anni.
A riprova del peso della disuguaglianza sociale, vanno ricordati anche altri numeri: dai 65 anni in su la prevalenza è pari al 9,3% tra i laureati e diventa del 20,1% tra gli anziani di più basso status sociale.
Il livello di istruzione e il titolo di studio fanno la differenza anche per quanto concerne obesità e sovrappeso, ma senza divari legati a età o sesso: se tra i laureati la percentuale è del 32,8%, tra i diplomati si sale al 42,8%, tra chi ha la licenza media al 52,7%, sino ad arrivare al 60,4% tra quanti hanno conseguito al massimo la licenza elementare.
Sintetizza Roberta Crialesi, dirigente del Servizio Sistema integrato salute, assistenza, previdenza e giustizia, dell’Istat: “Nella popolazione adulta, eliminando l’effetto dell’età, un laureato ha un rischio di ammalarsi di diabete quasi tre volte più basso di chi ha solo la licenza elementare, per le donne lo svantaggio tra le meno istruite è ancora più elevato”.
Il diabete è un esempio significativo di quanto i fattori sociali, come livelli di istruzione e di reddito, influenzino non soltanto la diffusione della patologia, ma anche la sua prognosi e gestione.
Riflessioni e dati su questa tematica ne troviamo anche nel saggio “Disuguaglianze sociali e per etnia nell’assistenza diabetologica” di Giulio Marchesini, Luca Montesi – Malattie del Metabolismo e Dietetica Clinica, Università “Alma Mater”, Bologna”, contenuto in “Il diabete in italia”, a cura di Enzo Bonora e Giorgio Sesti, Bononia University Press, Bologna 2016.
Gli autori ribadiscono il concetto che non soltanto in italia, ma in tutta Europa “i cittadini in condizioni di svantaggio sociale vedono aumentare la probabilità di ammalarsi, perdere autosufficienza, essere meno soddisfatti della propria salute e morire precocemente; gli indicatori migliorano progressivamente risalendo lungo la scala sociale (legge del gradiente sociale)”. E il diabete è effettivamente “un esempio paradigmatico di malattia cronica che ben esemplifica l’influenza dei determinanti sociali sulla prevalenza e sulla prognosi di malattia”.
Può sembrare (e probabilmente lo è) una clamorosa ingiustizia il fatto secondo cui chi non sta bene, ha più probabilità di stare peggio. Di certo è una realtà. Sul ruolo del livello di istruzione, connesso a quello del reddito, gli autori si interrogano e avanzano interpretazioni che meritano di essere riportate: “l’associazione tra titolo di studio più elevato e migliore stato di salute sembra dipendere dal legame inverso tra livello di istruzione e i fattori modificabili alla base delle principali malattie croniche non trasmissibili, quali regimi alimentari non equilibrati. A essa può anche contribuire il fatto che gli individui con basso titolo di studio presentano una minore propensione verso la prevenzione e la diagnostica e risultano più esposti a fattori di rischio ambientali, in parte legati all’esperienza lavorativa, che aumentano perfino il rischio di morte precoce (78% in soggetti con licenza elementare, 16% nei laureati). A livello territoriale, le regioni italiane presentano ampia variabilità nei valori e andamenti degli indicatori relativi all’istruzione e alla formazione, con ampio divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Un più elevato grado di scolarizzazione aumenta le opportunità lavorative e la possibilità di carriere professionali più continuative e gratificanti anche sul piano economico. La disponibilità di un lavoro è a sua volta fonte di reddito, ma anche di identità personale e di riconoscimento sociale, con un impatto rilevante sulle condizioni di vita generale e sulla salute psicofisica. Tra gli uomini si osservano spettanze di vita crescenti salendo lungo la scala sociale, mentre disoccupazione e incertezza del lavoro possono incidere sul benessere individuale e della sfera familiare, con un effetto che si può prolungare nel tempo. I livelli di istruzione, influenzando le possibilità lavorative, da ultimo incidono profondamente sulle disponibilità economiche. Il livello del reddito influenza lo stato di salute per un effetto diretto ed evidente tra carenza/mancanza di risorse e possibilità di cure. Le ridotte disponibilità economiche portano a uno svantaggio generalizzato, con il rischio dell’esclusione sociale che può minare la salute, fisica e psicologica, individuale”.
Tutte queste considerazioni sono perfettamente applicabili al diabete, la cui prevenzione, cura e autogestione dipende moltissimo dai comportamenti della persona, dalla sua consapevolezza e conoscenza della patologia e dei modi per evitarla o controllarla, dalla sua volontà e capacità di gestirla e dalle condizioni materiali di vita (tempo disponibile, spazi vitali, situazione psicologica personale, accesso all’informazione e capacità di discernere quella corretta).
Proseguono infatti gli autori sottolineando che anche nel diabete, gli individui con più basso livello di istruzione presentano una maggiore probabilità di malattia, e citano altri studi che avvalorano la tesi, come quello condotto dalla Commissione regionale per l’assistenza diabetologica del Piemonte, che ha rilevato come una scolarità limitata alla licenza elementare aumenti il rischio di ricovero in emergenza o non programmato del 90% rispetto ai laureati.
Inoltre, le condizioni economiche sfavorevoli e il basso livello di istruzione influenzano negativamente non solamente il rischio di sviluppare il diabete, ma anche gli effetti della patologia sulla salute della persona. Gli autori richiamano lo studio Quadri, condotto su un campione italiano di età 18-64 anni, che ha mostrato “che la prevalenza di complicanze associate al diabete aumenta negli uomini disoccupati rispetto agli occupati e nelle donne con basso titolo di studio rispetto a quelle con diploma superiore o laureate”. Infine, “la deprivazione economica e sociale incide sulla prognosi per le difficoltà nella gestione della malattia, nell’aderenza alla terapia e nell’accesso ai servizi sanitari”.
Il sistema di sorveglianza Passi (Progressi delle aziende sanitarie per la salute in Italia), programma continuo di sorveglianza nella popolazione italiana sui principali fattori di rischio comportamentali condotto dal Servizio sanitario con il coordinamento del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità, ha osservato che la prevalenza del diabete varia inversamente al livello sociale: dal 2% tra i laureati raggiunge il 15% tra le persone che hanno la licenza elementare o nessun titolo di studio; dal 3% tra chi dichiara di non avere difficoltà economiche all’8% tra chi ne dichiara molte. A sottolineare una volta di più quanto pesino sull’andamento della salute, e, in particolare in caso di diabete, le condizioni sociali delle persone (si veda in proposito “Lo stato di salute delle persone con diabete” di Valentina Minardi, Gianluigi Ferrante, Flavia Lombardo, Paolo D’Argenio, Marina Maggini – Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della salute (Cnesps) – Istituto Superiore di Sanità, Roma, Cnesps – Gruppo Tecnico del Sistema di Sorveglianza Passi, sempre in “Il diabete in Italia”).