Predire il diabete di tipo 1 o di tipo 2 e le eventuali complicanze della patologia utilizzando test genetici è un importante terreno di ricerca, nella prospettiva di arrivare a formulare terapie sempre più precise e personalizzate, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Per il momento l’uso dei test genetici per predire la comparsa del diabete e delle sue complicanze, per motivi diversi legati o all’impossibilità di prevenire alcune forme di diabete o alla scarsa capacità predittiva di questi test, è di scarsissimo valore nella pratica clinica.

L’ipotesi di test genetici per predire il diabete e le sue complicanze è un filone di ricerca molto interessante, ma per il momento, secondo la Sid, c’è ancora molto lavoro da fare: a oggi l’uso di questi test è di scarsissimo valore nella pratica clinica.

Lo dice un recente documento, pubblicato nel 2016 dal Gruppo di studio Genetica della Società italiana di diabetologia, che ha fatto il punto della situazione sull’ipotesi di predire il diabete mediante test genetici, mettendo allo stesso tempo in guardia dai ciarlatani che promettono “risposte da cartomante della salute attraverso un campione di saliva”.

Il documento della Sid si intitola “Predizione genetica delle forme comuni di diabete mellito e delle sue complicanze croniche” (sottotitolo: “C’è ancora molto lavoro da fare!’) ed è curato da Raffaelle Buzzetti, Sabrina Prudente, Massimiliano Copetti, Marco Dauriz, Simona Zampetti, Monia Garofalo, Giuseppe Penno, Vincenzo Trischitta. Illustra così le finalità generali dello studio il presidente della Sid Giorgio Sesti: “Il diabete è una condizione derivante da un insieme di fattori, ambientali e genetici. Questo documento è indirizzato non solo ai diabetologi ma anche a tutti i medici di medicina generale e specialisti di altre discipline, in quanto vengono affrontati temi di interesse sia per le persone a rischio di sviluppo di diabete, sia per le persone che hanno già una diagnosi di diabete”.

Il professor Vincenzo Trischitta è il coordinatore del Gruppo di studio Genetica della Sid che ha redatto il documento. Spiega: “La predisposizione genetica individuale alle malattie rimane tipicamente invariata nel tempo, a differenza delle condizioni di rischio cliniche e ambientali. Questo determina la possibilità teorica di riuscire a intercettare i soggetti ad alto rischio, anche molti anni prima dell’insorgenza della malattia, e dunque di impostare programmi precoci di prevenzione”.

La prospettiva è quindi molto interessante, ma -si chiede la Sid- “siamo veramente pronti per far entrare i test genetici nella pratica clinica del diabete?” La risposta è che per il momento “l’uso di test genetici per prevedere il diabete e le sue complicanze croniche è assolutamente di scarsissimo valore nella pratica clinica”, come si legge nelle Conclusioni del documento Sid.

Il professor Trischitta sintetizza così: “Se è ragionevole ipotizzare che, con il miglioramento delle nostre attuali conoscenze sulle cause genetiche del diabete, lo scenario possa cambiare nel corso dei prossimi anni, oggi è da sconsigliare, senza se e senza ma, l’uso di marcatori genetici per la predizione del rischio individuale del diabete e delle sue complicanze croniche”.

Vale la pena di riportare le considerazioni specifiche del gruppo di esperti della Sid sull’argomento per capire meglio a che punto siamo con l’ipotesi di poter predire il diabete attraverso test genetici.

  • Diabete di tipo 1. “Nel caso del diabete di tipo 1, informazione genetica e consulenza genetica, possono essere di qualche aiuto in alcune famiglie con un’elevata presenza di individui affetti, ma non nella popolazione generale. La presenza di una rilevante componente genetica alla base dell’insorgenza della malattia è evidente: il rischio di sviluppare diabete di tipo 1 prima dei 20 anni è del 5% nei bambini nati in una famiglia con un membro affetto da questa condizione, mentre è solo dello 0,3% nella popolazione generale. Il 50% di questa suscettibilità genetica al diabete di tipo 1 è ‘scritto’ nei geni del complesso maggiore di istocompatibilità (Hla), sul cromosoma 6. Al di fuori di questa piccola regione del Dna, ne sono state individuate altre 60 che conferiscono suscettibilità al diabete di tipo 1, ma che non sono così importanti come i geni Hla. Quelle più studiate sono il gene dell’insulina (Ins), del Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen (Ctla-4) e del Protein Tyrosine Phosphatase Non Receptor 22 (Ptn22)”.

 

Trischitta: “A oggi non è stata individuata alcuna strategia per la prevenzione del diabete di tipo 1 e quindi, una volta appurato un aumentato rischio di sviluppare la condizione morbosa, non si sarebbe comunque in grado di prevenirla”.

“La tipizzazione dei geni Hla -spiega Trischitta- insieme alla storia familiare di malattia e alla presenza di autoanticorpi (contro insulina, Gad, IA-2 e ZnT8), rappresenta attualmente il migliore approccio per la predizione del diabete di tipo 1. Nel singolo individuo la tipizzazione Hla potrebbe essere utile nei parenti di primo grado dei pazienti con diabete di tipo 1, permettendo di stimare il rischio della comparsa di autoanticorpi e dell’iperglicemia. Al di fuori dell’ambito predittivo, inoltre, la tipizzazione Hla può aiutare a distinguere il diabete di tipo 1 da altre forme di diabete (per esempio, il Mody o diabete neonatale). Tuttavia, a oggi non è stata individuata alcuna strategia per la prevenzione del diabete di tipo 1 e quindi, una volta appurato un aumentato rischio di sviluppare la condizione morbosa, non si sarebbe comunque in grado di prevenirla. Bisogna, dunque, chiedersi se i test di predizione del diabete di tipo 1 siano veramente utili ed eticamente giustificati sul versante medico-assistenziale o se invece debbano ancora essere lasciati come utile strumento di ricerca nell’attesa che si individuino vere strategie di prevenzione di questa forma di diabete”.

  • Diabete di tipo 2. “Il diabete di tipo 2 è una malattia caratterizzata da una forte componente genetica, ma grandemente influenzata anche dallo stile di vita e da influenze ambientali e sociali. Il numero delle varianti genetiche associate finora al rischio di diabete di tipo 2 è in costante aumento e attualmente se ne contano 153. L’insieme di tutte queste varianti, tuttavia, spiega appena il 10-15% della ereditabilità del diabete di tipo 2”.

 

“A oggi le informazioni genetiche non sono in grado di migliorare in maniera importante i modelli di predizione del rischio di diabete di tipo 2, basati sui dati clinici e demografici”.

“Negli ultimi anni sono stati sviluppati molti modelli non genetici per la predizione del rischio di diabete di tipo 2, basati su età, sesso, etnia, adiposità, glicemia, storia familiare di diabete, componenti della sindrome metabolica. Al momento attuale l’associazione delle informazioni genetiche a questi modelli clinici e sociodemografici di predizione del rischio di diabete di tipo 2 aggiunge poco o nulla alla capacità predittiva complessiva di questi modelli. Sebbene la speranza per il prossimo futuro sia di poter utilizzare le informazioni genetiche anche per la pratica clinica, vi è ancora molta strada da fare e a oggi le informazioni genetiche non sono in grado di migliorare in maniera importante i modelli di predizione del rischio di diabete di tipo 2, basati sui dati clinici e demografici. I pazienti dovrebbero essere dunque sconsigliati dall’effettuare i test genetici attualmente in commercio per la determinazione del rischio individuale di diabete di tipo 2. Nel caso del diabete di tipo 2, la scoperta di una suscettibilità genetica scritta nel Dna di un individuo non aggiunge nulla di clinicamente rilevante, almeno per il momento, alle informazioni date da biomarcatori non genetici di facile reperibilità ed economici”.

“A oggi, le informazioni sul background genetico delle complicanze del diabete a carico di reni, occhi, sistema nervoso periferico sono assolutamente insufficienti per consentire di prevederne il rischio”.

  • Complicanze del diabete. “Il diabete rappresenta un importante fattore di rischio per complicanze micro e macrovascolari (amputazioni, cecità, infarti e ictus, insufficienza renale, fino alla dialisi). La suscettibilità genetica individuale può fortemente influenzare il rischio di sviluppare queste complicanze: del 20-44% per la malattia renale cronica, del 27% per la retinopatia diabetica, del 40-60% per la patologia coronarica. Tuttavia, a oggi, le informazioni sul background genetico delle complicanze del diabete a carico di reni, occhi, sistema nervoso periferico sono assolutamente insufficienti per consentire di prevederne il rischio”.

 

Chi volesse approfondire il tema può consultare il documento, connettendosi a questo link sul sito della Società italiana di diabetologia Noi qui ne riportiamo il capitolo dedicato alle “Conclusioni”.

“CONCLUSIONI”

La previsione genetica del Dmt1 (diabete mellito tipo 1) è utile nelle famiglie e, in modo molto meno performante, nella popolazione generale, solo quando anche gli autoanticorpi diabete-specifici siano stati valutati Tuttavia, a oggi nessuna strategia di successo per la prevenzione del Dmt1 è stata ancora identificata; per questo, la questione chiave è se gli studi di predizione del Dmt1 siano veramente utili ed eticamente giustificati a questo stadio di conoscenza.

Per quanto riguarda il Dmt2, sebbene ulteriori scoperte di fattori genetici predisponenti non ancora identificati potrebbe cambiare in maniera importante lo scenario attuale, il messaggio da recepire è che, attualmente, l’aggiunta di informazioni genetiche a modelli di previsione clinici poco costosi e ben performanti non fornisce risultati migliori. Quindi, come già anticipato qualche anno fa, i pazienti devono essere allertati circa la scarsa sensibilità dei test genetici per il Dmt2 e dovrebbero essere piuttosto incoraggiati a essere arruolati in studi scientifici volti a migliorare in primo luogo le nostre conoscenze sull’architettura genetica del Dmt2 per poi cercare di utilizzare le nuove conoscenze per implementare sempre di più le strategie di predizione.

Lo stesso discorso vale per le malattie cardiovascolari, per le quali l’aggiunta d’informazioni genetiche a modelli basati sulle caratteristiche cliniche non si traduce in un miglioramento sostanziale nella discriminazione del rischio.
Infine, le informazioni sul background genetico di altre complicanze diabetiche che colpiscono reni, occhi e sistema nervoso periferico non sono al momento assolutamente sufficienti per provare a fare predizione, sottolineando che il tempo per l’utilizzo di dati genetici per migliorare la stratificazione del rischio è davvero lontano a venire.

In definitiva, al giorno d’oggi, l’uso di test genetici per prevedere il diabete e le sue complicanze croniche è assolutamente di scarsissimo valore nella pratica clinica. Una migliore definizione fenotipica dei diversi sottotipi d’iperglicemia, un’identificazione esaustiva delle varianti genetiche rare/infrequenti con un importante effetto biologico e strumenti statistici adeguati, specificamente progettati per tenere conto delle interazioni gene-gene e gene-ambiente, rappresentano nell’insieme innovazioni necessarie per avere successo nella realizzazione di dati genetici in ambito clinico, in modo che una migliore previsione del rischio di sviluppare iperglicemia e le sue devastanti complicanze possa diventare realtà.