Dai dati di un recente studio statunitense, il D2d, l’ipotesi avanzata da alcune precedenti ricerche secondo cui la vitamina D aiuterebbe a prevenire il diabete tipo 2 non risulta confermata. La nuova ricerca, presentata quest’anno a San Francisco, California, durante la settantanovesima edizione delle sessioni scientifiche della American diabetes association (Ada), non ha raccolto risultati significativi che dimostrino che una supplementazione di vitamina D sia in grado di prevenire la comparsa di diabete di tipo 2. Per il momento, questa opzione, che sembrava aprire la porta a nuove possibilità nel campo della prevenzione, resta senza fondamento scientifico.
Lo studio americano D2d ha rilevato che la supplementazione quotidiana di vitamina D in adulti che ne hanno una dotazione sufficiente nell’organismo e sono ad alto rischio di diabete di tipo 2 (prediabete) non riduce significativamente il rischio di sviluppare la patologia.
La vitamina D (che si assorbe con l’esposizione ai raggi solari e si trova in alimenti comuni e importanti come pesci grassi, latte e derivati, uova, olio di fegato di merluzzo, verdure) ha notoriamente effetti benefici sulle ossa. Ma negli ultimi anni si era fatta strada la speranza, basata su alcuni studi osservazionali, che potesse essere una potenziale risorsa positiva anche contro il diabete, in quanto si era rilevata una associazione tra bassi livelli di vitamina D e maggiore rischio di diabete di tipo 2. La ricerca scientifica si è posta allora l’obiettivo di verificare se con l’assunzione di dosi di vitamina D le persone con prediabete, e quindi particolarmente esposte all’eventualità di sviluppare la patologia, potessero vedere ridotto il loro rischio di diventare diabetiche.
Da qui sono partiti infatti gli autori dello studio D2d (“Vitamin D and type 2 diabetes (D2d) Study – A multicenter randomized controlled trial for diabetes prevention”), condotto da un gruppo di ricerca coordinato da Anastassios G. Pittas (condirettore del Diabetes and Lipid Center, Divisione di Endocrinologia, diabete e metabolismo, del Tufts Medical Center, Boston, Massachusetts, Usa) e pubblicato su The New England Journal of Medicine in giugno.
Scopo del D2d era dunque quello di verificare se la supplementazione di vitamina D fosse in grado di ridurre il rischio di diabete di tipo 2 in persone con prediabete e pertanto ad alto rischio di sviluppare la patologia: sono state perciò selezionate circa 2500 persone con prediabete e sono state divise in due gruppi, uno a cui è stata somministrata regolarmente una dose quotidiana di vitamina D e un altro a cui è stato dato un placebo. Alla fine dello studio, in cui i partecipanti sono stati seguiti mediamente per due anni e mezzo, dal punto di vista della prevenzione del diabete non sono risultate differenze significative tra i due gruppi. I ricercatori hanno concluso che la supplementazione di vitamina D in dosi di 4000 unità al giorno in adulti che ne hanno una dotazione sufficiente e sono ad alto rischio di diabete di tipo 2 non riduce significativamente il rischio di diabete, fatto il confronto con chi assumeva placebo.
Più in particolare, lo studio ha selezionato 2423 partecipanti, adulti americani abitanti in 22 diverse località: tutti avevano prediabete (cioè livelli di glicemia, misurati a digiuno o dopo carico di glucosio o dopo esame della emoglobina glicata, alti, anche se non ancora tali da determinare diagnosi di diabete – sull’argomento si veda, per esempio, qui). Sono stati poi costituiti due gruppi quantitativamente equivalenti: 1211 persone che assumevano giornalmente vitamina D (4000 unità in pillole di colecalciferolo) e 1212 che assumevano placebo. Nel corso di due anni e mezzo i casi di diabete emersi sono stati 293 nel gruppo vitamina D e 323 nel gruppo placebo: come dice il dottor Pittas, non c’è stata una significativa differenza tra i due gruppi. Il gruppo vitamina D ha fatto sì registrare alcuni casi in meno, ma lo scarto non può essere considerato statisticamente rilevante.
I ricercatori avrebbero considerato significativi risultati che mostrassero una riduzione del rischio di diabete, grazie alla supplementazione di vitamina D, del 25% o maggiore. L’esito della sperimentazione è arrivato a una riduzione del 12%: troppo poco per trarre conclusioni favorevoli.
I ricercatori non chiudono però tutte le porte sull’argomento. Fanno notare che i soggetti selezionati avevano nell’80% dei casi valori di vitamina D considerati sufficienti dalle linee guida medico-scientifiche e che questa alta percentuale non consente di dire se la vitamina D possa avere un effetto preventivo nei riguardi del diabete in persone con livelli di vitamina D particolarmente bassi (soggetti che nel campione esaminato dal D2d erano in numero troppo esiguo). Su questo punto si potranno eventualmente condurre nuove ricerche.
Gli studiosi sottolineano che la ricerca in ogni caso non si fermerà e continuerà a studiare la vitamina D: sia per quanto riguarda la possibilità di suoi eventuali effetti specifici sul diabete (per esempio, se possa avere un’influenza sulla produzione di insulina) sia per quanto concerne eventuali effetti, in persone ad alto rischio di diabete, su problematiche relative a patologie cardiovascolari, malattia renale, tumore, salute delle ossa.
Per il momento, a ogni modo, le prospettive aperte dai precedenti studi sono state richiuse.
La Società italiana di diabetologia (Sid) ha accolto la notizia come un caso esemplare di come proceda e debba procedere la scienza nel suo lavoro di ricerca: “L’ipotesi, suggerita da recenti studi osservazionali, che una supplementazione di vitamina D fosse in grado di prevenire la comparsa di diabete, è errata. Assumere vitamina D, in altre parole, non aiuta a prevenire il diabete. La medicina, la scienza, la ricerca rispondono a regole precise, finalizzate a valutare con metodo scientifico un’ipotesi e a rigettarla qualora questa non superi la prova degli studi clinici controllati”.