Il diabete delle donne non è uguale a quello degli uomini. Sia nel diabete di tipo 1 sia nel diabete di tipo 2, si riscontrano differenze significative che giustificano pienamente l’applicazione dei criteri della medicina di genere anche in questo campo. Il tema del diabete delle donne è stato studiato sistematicamente, negli ultimi cinque anni, dal Gruppo Donna dell’Associazione medici diabetologi (a cui fanno riferimento 800 diabetologhe italiane). Partendo dalle rilevazioni degli Annali Amd, fotografia periodica e accurata dell’assistenza alle persone con diabete in Italia, è stata analizzata la condizione della donna diabetica a confronto con il suo omologo maschile: nel 2012 il Gruppo di lavoro ha prodotto un rapporto sul diabete di tipo 2, quest’anno ha presentato quello sul diabete di tipo 1 (“Le differenze di genere nel diabete di tipo 1″).

Entrambi i rapporti attestano che le pari opportunità di accesso e di cura sono assicurate e che non esistono reali disparità nell’assistenza e nel controllo dei parametri fondamentali (glicemia, colesterolo, pressione, microalbuminuria, esame dell’occhio e del piede eccetera): ciononostante, la risposta delle donne alla patologia e ai trattamenti per curarla non è identica a quella degli uomini e spesso è meno favorevole. Insomma, anche nel diabete le donne e gli uomini sono differenti. Ma c’è di più: passando dal tipo 1 al tipo 2, anche le differenze sono differenti, per così dire. Infatti, ormai la diabetologia tende a considerare il tipo 1 e il tipo 2 non tanto come due forme diverse di una medesima patologia, ma piuttosto come due patologie distinte con alcune caratteristiche di fondo in comune.

Esemplifica, con una prima sintesi, Valeria Manicardi, coordinatrice del Gruppo di lavoro Amd: “Nel diabete le donne non sono uguali agli uomini. Per esempio, nel diabete di tipo 2, rispetto a uomini di pari età e con equivalente accesso alle cure e medesimo trattamento, le donne hanno un peggiore profilo lipidico e un maggiore rischio cardiovascolare. Nel diabete di tipo 1 le donne, di qualsiasi età, hanno, nell’insieme, una emoglobina glicata meno buona e un peggior compenso metabolico, anche se gli indicatori sulla frequenza di monitoraggio sono equivalenti”.

Il rapporto 2015, dedicato al diabete di tipo 1, ha preso in esame i dati relativi a 28.804 pazienti (il 10% delle circa 300.000 persone con diabete 1 stimate dal Ministero della Salute), di cui 13.094 donne e 15.708 uomini, seguiti da 320 centri diabetologici italiani. Nel diabete di tipo 1, i soggetti maschili sono in maggioranza, 54,5% contro 45,5%, un dato che si riscontra in tutto il mondo, ma che non trova ancora una spiegazione scientifica certa sulle cause di questa prevalenza. Il rapporto precedente sul diabete di tipo 2 ha raccolto dati su 236 servizi di diabetologia di tutta Italia, oltre un terzo di quelli attivi sul territorio nazionale. Anche qui prevalgono percentualmente i maschi: 54, 7% contro il 45,3% di donne. Le cifre riguardano circa un sesto degli italiani con diabete 2: le donne analizzate sono più di 188.000, più del 12% della popolazione femminile con diabete.

Sia nel diabete di tipo 1 sia nel diabete di tipo 2, le donne hanno una peggiore emoglobina glicata e un meno efficace compenso metabolico.

Guardando i dati più da vicino, si osserva che nel diabete di tipo 1 quasi tutti i pazienti (94%) eseguono almeno un controllo l’anno dell’emoglobina glicata, ma i valori ottimali (cioè pari o sotto il 7%) sono raggiunti da un uomo su quattro (25,6%) e da una donna su cinque (20,4%). La quota di pazienti con glicata particolarmene alta (superiore all’8%) oscilla tra il 40 e il 50% sia per i maschi sia per le femmine, ma i risultati peggiori sono sempre quelli delle donne (in media, 47,3% contro 41,6%); in qualche caso anche con vistoso scarto percentuale (sopra i 55 anni, 51,3% contro 39,8%). Commenta Manicardi: “Questa maggiore variabilità si riscontra per le donne in tutte le fasce di età, indipendentemente dal trattamento: sia con terapia insulinica multi-iniettiva sia con microinfusore, le donne faticano a raggiungere il target di emoglobina glicata, anche se con il microinfusore aumenta del 6% la quota di persone con diabete di tipo 1 che raggiungono il target del trattamento, indipendentemente dal genere”. Ecco perché la maggiore difficoltà di controllo fa sì che le donne facciano un maggiore uso del microinfusore rispetto agli uomini.

Anche nel diabete di tipo 2 si riscontra una percentuale alta (oltre il 92%) nella regolarità dei controlli della emoglobina glicata, pari tra uomini e donne. Ma anche qui si registra una maggiore percentuale di donne con cattivo compenso metabolico rispetto agli uomini: 58,3% contro 54,5% (e quindi il controllo glicometabolico ottimale è ottenuto dal 41,7% delle donne contro il 45,5% dei maschi). Un’emoglobina glicata troppo alta, indice di scompenso, sopra l’8% si rileva nel 29,6% delle femmine e nel 26,9% dei maschi; sopra il 9%,  il 13,4% contro il 12,8%).

Ma perché le donne vanno meno bene nell’equilibrio glicemico e metabolico? Certamente nel diabete delle donne hanno un loro peso le specificità dell’organismo femminile, come sottolinea ancora Manicardi: “Il succedersi di pubertà, gravidanza, età menopausale con le variazioni ormonali connesse può spiegare la maggiore variabilità del compenso metabolico nelle donne ed è possibile e probabile che il pattern ormonale femminile influenzi una diversa risposta di genere al trattamento insulinico”.

Nel caso del diabete di tipo 2 si aggiunge un fattore meno frequente nel tipo 1 e che mette a repentaglio l’equilibrio metabolico: le donne con diabete di tipo 2 sono più spesso dei maschi in sovrappeso (spesso determinato anche da ragioni ormonali). L’indice di massa corporea (Bmi, body mass index) medio è di 30,2 contro il 29,2 degli uomini; le gravemente obese sono il 18,8% contro il 10,1% dell’universo maschile (il Bmi normale è considerato compreso tra 18,50 e 24,99).

Il rischio cardiovascolare è più alto nelle donne con diabete di tipo 2, mentre nel tipo 1 maschi e femmine sono in condizioni simili.

Per quanto riguarda il rischio cardiovascolare (una delle più serie complicanze di un diabete non compensato), nel diabete di tipo 1 non vi sono sostanziali differenze di genere, mentre nel diabete di tipo 2 la donna risulta più esposta al rischio. Le donne con diabete di tipo 2 hanno un rischio cardiovascolare da 3 a 5 volte più alto delle donne non diabetiche, nell’uomo, invece, il rischio è due volte maggiore.

Per ciò che concerne il profilo lipidico e quindi il colesterolo “cattivo” (Ldl, da distinguere da quello “buono”, Hdl), risulta che nel diabete di tipo 1, a parità di trattamento (con statine) e con medesima percentuale di raggiungimento di valori ottimali (41%), tra uomini e donne vi sia una condizione molto simile. Nel diabete di tipo 2, invece, non è così: le donne con valori di Ldl inferiori a 100 mg/dl sono di meno (-7%) sia alla diagnosi sia durante la malattia. Fanno più fatica degli uomini a raggiungere l’obiettivo 100.

Non tutti gli indicatori sono a sfavore delle donne: la pressione, infatti, è sempre tenuta più sotto controllo nelle pazienti di sesso femminile nel diabete di tipo 1: il 69,5% delle donne è a target per la pressione arteriosa, rispetto al 61,5% degli uomini, e il 25,2% delle donne ha valori di pressione inferiori a 140/90 mmHg rispetto al 30,5% degli uomini.  Diversamente vanno le cose nel diabete di tipo 2: i valori più alti e pericolosi (sopra 140/90 mmHg) si riscontrano più nelle donne (58,1%) che negli uomini (56,2%).

Valeria Manicardi (Gruppo Donna Amd): è necessaria un’assistenza personalizzata basata sulle differenze tra i due sessi.

Dal momento che è ormai chiaro che il diabete delle donne è diverso, Manicardi conclude sottolineando l’importanza di “capire quali siano i bisogni comuni e quali invece genere-specifici, nell’ottica di miglioramento e personalizzazione dell’assistenza che dovrà essere sempre di più tarata sulle differenze epidemiologiche, fisiopatologiche e psicoattitudinali tra i due sessi”.