La trasformazione digitale in atto da tempo in sanità sta subendo, con la pandemia Coronavirus, un’improvvisa accelerazione, come testimoniano i continui incrementi nell’utilizzo dei servizi digitali e come abbiamo registrato in un precedente articolo (leggi qui). Abbiamo però voluto verificare sul campo il peso reale di questa “digital disruption”, andando a verificare come in un centro di diabetologia vengano impiegati i servizi digitali e le app nella pratica clinica. Ecco l’intervista al diabetologo Alfonso Gigante, responsabile del servizio di malattie metaboliche dell’ospedale Cesare Zonchello di Nuoro.
Partiamo da un suo giudizio sulla “digital disruption” in medicina. Questa trasformazione digitale riguarda anche la diabetologia?
Il mondo sembra improvvisamente cambiato con l’emergenza Coronavirus e l’impressione mia e dei miei colleghi è che i processi digitali che erano già in atto abbiano ora subito un’improvvisa accelerazione. Le faccio un esempio. Qui a Nuoro, insieme con i colleghi di Sassari, stavamo conducendo per conto dell’Ads Sardegna una sperimentazione nell’ambito della telemedicina: l’inserimento cioè dei dati dei pazienti all’interno di una cartella clinica diabetologica. L’app che viene utilizzata consente di scaricare i dati dei glucometri in commercio, oltre ad altre informazioni come ad esempio l’insulina, i carboidrati, il peso, l’attività fisica svolta e così via. Poi, l’iniziativa è stata estesa a tutti i diabetologi della Sardegna, quindi l’impressione che ne ho ricavato è, appunto, di una accelerazione dei processi che in altre parti del mondo sono da tempo utilizzati, mentre da noi sembravano destinati a svilupparsi più lentamente. Ora, invece, vengono rapidamente adottati.
Quindi, anche in diabetologia possiamo parlare di “rivoluzione digitale”?
Certamente la “digital disruption” riguarda la diabetologia e in pieno, già da tempo e ancor di più adesso. Lo testimonia anche una recente proposta fattaci dall’Associazione medici diabetologi legata all’emergenza Covid-19. L’invito è di impegnarci a lavorare prevalentemente in telemedicina, comportamento già diffuso a livello nazionale.
Che ruolo hanno raggiunto i servizi digitali nella sua pratica clinica di diabetologo?
Emblematico un mio caso, a dimostrazione di come i servizi digitali stiano prendendo peso. La nostra direzione ci ha chiesto di attuare percorsi di sicurezza, per ottemperare ad alcune esigenze: non diffondere il contagio; assicurare diagnosi e terapia il più precocemente possibile. Noi abbiamo scelto la telemedicina e ufficialmente l’amministrazione ci ha riconosciuto la possibilità di utilizzarla a livello ambulatoriale per alcuni casi specifici, come le urgenze e i raggruppamenti omogenei per le liste d’attesa. Tuttora lavoriamo così, e non solo noi, ma anche altri colleghi. Quindi, questi servizi digitali sono riconosciuti ed entrati nella pratica clinica della diabetologia.
E i pazienti, come accolgono questo impiego del digitale e, in particolare, delle app?
La sperimentazione che abbiamo fatto ha messo in evidenza alcuni aspetti clinici. Innanzitutto c’è una buona parte della popolazione cosiddetta “nativa analogica” e non digitale, che ha diversi problemi di approccio alla tecnologia, soprattutto se sono anziani o di condizione sociale svantaggiata. Abbiamo incontrato parecchie difficoltà, superate grazie all’aiuto dei caregiver. Ci sono nipoti o figli in grado di utilizzare le app, anche se il distanziamento sociale causa ora qualche problema, ma speriamo di uscire in fretta dalla pandemia. L’altro ostacolo è legato alla disponibilità di tecnologie adeguate: non tutti i telefonini sono in grado di caricare le app, e questo crea una disparità di trattamento rispetto a chi può comperarsi il telefonino delle ultime generazioni. Infine, c’è il problema di chi rifiuta il servizio perché si sente particolarmente sorvegliato. Per loro è imbarazzante, perché tu diabetologo scopri se uno mangia e non fa l’insulina, se la fa in modo corretto, se salta i controlli e così via, e pertanto alcuni rifiutano perché si sentono troppo sorvegliati.
Ma questa ritrosia nel sentirsi controllati non viene superata dai vantaggi che la tecnologia assicura?
In genere sì, ma quando c’è un rifiuto della patologia la tecnologia non risolve il problema. Nel senso che chi non vuole collaborare con noi continua a non misurarsi la glicemia, o a non rispettare la terapia e, quindi, a non utilizzare l’app. Ma anche un dato negativo diventa per noi interessante, perché ci permette di capirli per approcciarli meglio, di trovare la chiave per superare le loro perplessità. L’approccio allora diventa motivazionale -come sempre in diabetologia- con l’obiettivo di far capire i vantaggi che derivano da un miglior controllo.
Abbiamo visto le negatività. Ma in generale qual è l’atteggiamento della persona con diabete?
Chi utilizza queste tecnologie è contentissimo, perché si sente controllato, accudito, protetto. Tant’è vero che le app vengono utilizzate per ottenere tante informazioni, dal peso degli alimenti, all’attività fisica svolta durante la giornata, al controllo delle insuline fino a individuare emozioni e stress. Si, sono molto contenti e anche per noi sono di grande utilità, soprattutto in questo periodo, perché ci consentono di conoscere l’andamento dei nostri pazienti a distanza.
Questo vale anche per le persone anziane?
La media delle persone in diabetologia è di età avanzata, supera i 68-70 anni, ma abbiamo visto che, se sono motivate, superano le difficoltà. E comunque in casa o in affiancamento c’è sempre qualcuno che interviene e aiuta.
Quale futuro ritiene avranno i servizi digitali e, in particolare, le app per la gestione della patologia diabetica?
Avranno un ruolo centrale e non soltanto le app, ma anche le piattaforme cloud, dove confluiscono i dati dei microinfusori, avranno un impatto fortissimo. Addirittura vedo, nel lungo periodo, la possibilità di implementarle, tant’è vero che noi stiamo già pensando di organizzare appuntamenti in telemedicina e non soltanto visite ambulatoriali. Pensiamo al loro utilizzo per chi lavora, per gli anziani, per chi ha difficoltà di spostamento o di deambulazione, per le grandi possibilità d’interscambio che garantiscono. C’è però una problematica che emerge sempre di più: la maggior parte di chi usa la tecnologia si aspetta di essere seguito costantemente. Ma le risorse mediche si riducono sempre di più, perciò emerge la necessità di costruire nuove professionalità intermedie, in grado di rendere possibile un’interazione reale tra utente e servizio di diabetologia. In diabetologia sta arrivando un’enormità di dati: per esempio nella nostra area abbiamo circa 9.000 pazienti e se ne mettiamo 4.500 in telemedicina è chiaro che non possiamo controllarli giornalmente. Va allora trovato un sistema intermedio, un’intelligenza artificiale o una classe di infermieri addestrati, che faccia da filtro, capace di analizzare, gestire e sintetizzare questi big data per riportarli poi al medico. Dovremo arrivarci e il Coronavirus accelererà questo percorso, che penso sia ormai obbligato.