Tra il 30 e il 50% delle persone con diabete soffre di fegato grasso, una particolare condizione patologica che aumenta le possibilità di insorgenza di malattie croniche epatiche (fino alla cirrosi) e cardiovascolari. Il nome scientifico del fegato grasso è “steatosi epatica” ed è caratterizzato dall’eccessivo accumulo di grassi nelle cellule del fegato: si parla di eccesso quando il grasso supera il 5-10% del peso del fegato (la diagnosi avviene dopo appositi esami prescritti dal medico).

Secondo la Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva, il fegato grasso riguarda in generale un italiano su quattro, l’80-90% delle persone obese e il 30-50% delle persone con diabete.

Secondo la Sige, Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva (Sige), il fegato grasso, ovvero la “steatosi epatica non alcolica” ((Nafld, Non alcoholic fatty liver disease), riguarda in generale un italiano su quattro, l’80-90% delle persone obese e un’alta percentuale di diabetici (30-50%).

Si tratta di una condizione strettamente associata all’eccesso di peso e sappiamo che spesso le persone obese e in sovrappeso sono anche diabetiche e in ogni caso a rischio di diabete di tipo 2: ecco perché chi ha il diabete ha spesso il fegato grasso.

La relazione del fegato grasso con l’obesità e il sovrappeso e con il diabete ci fa capire l’entità della problematica, alla luce dei dati del recente Italian Diabetes and Obesity Barometer Report, secondo cui oggi in Italia le persone in sovrappeso sono circa 21 milioni e un italiano su dieci (il 10,4%) è obeso. Inoltre, secondo il rapporto (in particolare il capitolo “Una pandemia cha avanza”, a cura di Istat, Coresearch e Ibdo Foundation), “come già osservato in molte indagini epidemiologiche, il diabete è spesso associato a obesità e a comportamenti sedentari. Infatti, se complessivamente nella popolazione adulta normopeso (di 18 anni e più) la prevalenza di diabete è pari al 3,6%, tra gli adulti obesi la quota raggiunge il 15,1%; tale quota cresce all’aumentare dell’età fino a raggiungere il 28,8% tra gli anziani di 75 anni e più”. Infine, da dati Istat (Indagine Multiscopo “Aspetti della vita quotidiana” 2015, citata nel Barometer Report), tra le persone affette da diabete le persone in sovrappeso od obese risultano essere oltre il 70% (47,3 + 23,1).

Come si è arrivati a quella che la Sige definisce “una vera e propria epidemia di fegato grasso”? Ne spiega il processo il presidente della Società italiana di gastroenterologia e endoscopia digestiva Antonio Craxì: “l’evoluzione costante della specie umana ha selezionato gli individui più capaci di accumulare grassi, premiandone la maggiore resistenza alla malnutrizione. Questo assetto genetico “frugale” costituiva un importante vantaggio in tempi di fame e carestie, ma si è trasformato in uno svantaggio potenzialmente letale, per le conseguenze metaboliche (diabete, malattie cardiovascolari) nel momento in cui il nostro profilo alimentare si è arricchito a dismisura di fonti caloriche e nel contempo l’attività fisica si è ridotta. Il fatto poi che si viva assai più a lungo, grazie ai progressi nel curare malattie e traumi, favorisce ulteriormente la comparsa delle malattie degenerative legate all’accumulo di grassi in molti organi e sistemi del nostro corpo”.

Cattive abitudini a tavola e troppa sedentarietà

Il problema è serio, perché sulla predisposizione ad accumulare grasso acquisita nel tempo dal nostro organismo agiscono le diffuse cattive abitudini alimentari, che portano tante persone a seguire diete con eccesso di grassi e calorie, anziché la raccomandata dieta mediterranea. A ciò si aggiunge una scarsa attitudine all’esercizio fisico, accentuata da condizioni di vita e di lavoro che spingono alla sedentarietà. Significativo in proposito il dato fornito dall’Italian Barometer Report: nel 2015, 23 milioni 524mila persone (il 39,9% della popolazione dai 3 anni in su) dichiarano di non praticare né sport né attività fisica nel tempo libero.

Il fegato grasso, come d’altronde il diabete di tipo 2 a cui spesso si accompagna, è una delle conseguenze dei comportamenti sbagliati. Ed è una patologia che tende a crescere: esistono proiezioni, di fonte statunitense, secondo le quali, entro il 2030 il fegato grasso sarà la principale causa di cirrosi e la prima causa di ricorso al trapianto di fegato, superando le epatopatie croniche da virus dell’epatite B e C e la cirrosi alcolica.

L’importanza di un sano microbiota intestinale

Il tema del fegato grasso chiama in causa anche il microbiota intestinale (del quale, in relazione al diabete, abbiamo parlato anche qui). Spiega in proposito Ludovico Abenavoli, professore associato di gastroenterologia dell’Università Magna Graecia di Catanzaro: “Per microbiota intestinale si intendono quei miliardi di batteri localizzati in particolare nel piccolo intestino, che possono raggiungere una massa di 2-3 chili”. Il microbiota facilita la digestione e l’assorbimento degli alimenti che passano dallo stomaco nell’intestino, ma assume diverse connotazioni a seconda di che cosa si mangia.

Da uno studio di Carlotta De Filippo e colleghi pubblicato nel 2010 su Pnas, richiamato dalla Sige (“Impact of diet in shaping gut microbiota revealed by a comparative study in children from Europe and rural Africa”: potete approfondire leggendo qui) arrivano risultati significativi: la ricerca mostra che chi segue una dieta a base di verdura, frutta e fibre ha una maggiore variabilità nella composizione del microbiota intestinale rispetto a chi ne segue una ricca di carne, fruttosio e altri zuccheri complessi.

Abenavoli (Università di Catanzaro): una ridotta varietà del microbiota intestinale predispone a sovrappeso-obesità, all’insulino-resistenza e al diabete mellito, alle patologie cardiovascolari, ai tumori e alla steatosi epatica non alcolica.

In proposito Abenavoli spiega che “una ridotta variabilità del microbiota intestinale predispone a una serie di patologie: aumenta la suscettibilità allo stress ossidativo, altera il metabolismo degli zuccheri e dei grassi e quindi predispone al sovrappeso-obesità, in particolare a livello viscerale, all’insulino-resistenza e al diabete mellito, alle patologie cardiovascolari, ai tumori e, come scoperto più di recente, anche alla steatosi epatica non alcolica. Chi consuma una dieta ricca di frutta e verdura ha un microbiota ricco di tante specie batteriche diverse (Actinobatteri, Bacteroides, Firmicutes, Proteobatteri), mentre chi indulge in una dieta occidentale o nel cibo da fast food presenta un microbiota ricco solo di Firmicutes. Questo squilibrio predispone a maggior stress ossidativo, a un aumento della permeabilità a livello dell’intestino (soprattutto del piccolo intestino), con conseguente passaggio delle tossine batteriche (soprattutto del lipopolisaccaride batterico) e di altre componenti tossiche nel circolo portale, che le veicola al fegato, dove provocano danni e facilitano l’infiammazione. Questo microbiota, dalla composizione squilibrata e dalla scarsa variabilità, induce un aumento dei livelli circolanti di citochine infiammatorie, che predispongono alla formazione della placca ateromatosa e favoriscono l’aggregazione piastrinica; fattori questi che, a loro volta, predispongono allo sviluppo di eventi cardiovascolari nel medio-lungo termine. Avere il fegato grasso (cioè le cellule epatiche piene di trigliceridi) va dunque considerato un campanello d’allarme non tanto per oggi, quanto per gli anni futuri”.

La dieta mediterranea rimane la migliore risposta nutrizionale per avere uno stile di vita salutare e per prevenire patologie come il diabete di tipo 2 e il fegato grasso.

Torna quindi in primo piano l’importanza della corretta alimentazione come strategia essenziale per prevenire le malattie epatiche e cardiovascolari e mantenersi in buona salute. Anche secondo Abenavoli la migliore risposta nutrizionale è rappresentata dalla dieta mediterranea. Dice il professore: “La dieta mediterranea, bilanciata e facilmente accessibile, non determina quegli squilibri nutritivi tipici delle diete vegetariane o, peggio, di quella vegana, che a lungo andare possono avere importanti ripercussioni sulla salute (anemia, problemi neurologici, possibile predisposizione dei vegani all’Alzheimer). Allo stesso tempo ci consente di coltivare il nostro amico microbiota intestinale, che è molto importante, ci accompagna per tutta la vita e ci protegge da una serie di malattie”.

Abenavoli si sofferma sul raffronto tra la dieta mediterranea e quelle vegetariana e vegana oggi molto in voga anche in Italia (abbiamo riportato la posizione della Sid sul tema qui). Secondo il professore, “dieta mediterranea o dieta vegetariana/vegana hanno effetti simili per quanto riguarda il microbiota intestinale, anche se gli studi pubblicati non hanno fatto confronti diretti tra queste tre diete, ma tra dieta vegana-vegetariana o dieta mediterranea e dieta occidentale, piena di grassi e cibi da fast food. Posto che dieta vegetariana, vegana e mediterranea hanno tutte un effetto positivo sulla composizione del microbiota intestinale, esistono tuttavia grandi differenze tra questi tre regimi alimentari per quanto riguarda il deficit di alcuni nutrienti. Una dieta mediterranea bilanciata non determina deficit nutritivi, cosa che invece è possibile osservare nei soggetti che seguono una dieta vegetariana e ancor di più in quelli a dieta vegana. Non consumare carne determina un deficit di vitamine del gruppo B e di ferro. Nei vegani stretti si possono verificare deficit di vitamine del gruppo B, D, ferro, zinco e altri micronutrienti”.

A parere del presidente della Sid Giorgio Sesti, il problema del sovrappeso (che abbiamo visto essere legato anche al fegato grasso) va affrontato incrementando l’attività fisica e riducendo le calorie assunte con la dieta e anche per lui quello mediterraneo resta il paradigma da raccomandare: “I risultati migliori si ottengono utilizzando modelli alimentari che hanno radici culturali/tradizionali nella dieta mediterranea, ovviamente tenendo conto delle necessità individuali. La sana e tradizionale dieta mediterranea resta sempre la risposta giusta e la migliore per uno stile di vita salutare. Alla terapia nutrizionale per la perdita di peso deve essere associato un cambiamento dello stile di vita, che includa anche un’attività fisica regolare di moderata intensità, della durata di almeno 30 minuti per cinque giorni a settimana”.